La terapia insulinica è una delle conquiste scientifiche più importanti del XX secolo, di quelle che hanno cambiato la medicina salvando molte vite che prima non erano salvabili.

Dalla storica scoperta dei canadesi Banting e Best, nei primissimi anni '20 a Toronto, il percorso della ricerca è stato lento ma costante, con l'introduzione negli anni '40 dell'insulina NPH, la prima forma ad azione protratta messa a punto da Hans C. Hagedorn, seguita dallo sviluppo di altre molecole ad azione più lenta negli anni '50, fino a giungere alla rivoluzione del 1980 rappresentata dall'insulina umana ottenuta con la tecnica del DNA ricombinante. Si è potuto allora tralasciare l'uso di estratti di origine bovina e porcina per introdurre finalmente in terapia, da quel momento in poi, una molecola in tutto e per tutto analoga a quella umana.



Fig. 1 - Frederick Grant Banting (a destra) con il suo assistente Charles Herbert Best (1924), premi Nobel per la Medicina nel 1923. In realtà il premio Nobel vene assegnato a Banting e John R. Macleod, ma Banting volle dividere il riconoscimento col suo assistente, che a suo dire lo meritava più di McLeod (Wikipedia)

Insulina, un progetto scientifico multidisciplinare

Negli ultimi anni stiamo assistendo a un'accelerazione progressiva della ricerca scientifica, con la messa a punto di nuovi tipi di insulina, tramite metodologie hi-tech di ingegneria biomolecolare, per trovare nuove soluzioni a esigenze che vengono direttamente da rigorosi studi clinici.

Le motivazioni sono chiare: essendo la terapia insulinica una delle più impegnative per i pazienti, chiamati in misura maggiore rispetto ad altre condizioni cliniche ad agire in prima persona sulle variazioni terapeutiche, si ha bisogno di metodi e preparazioni farmacologiche che garantiscano la massima gestibilità. Il che significa per i pazienti: una via di somministrazione meno disagevole, un certo grado di flessibilità negli orari e nei tempi di assunzione, evitare pericolose diminuizioni della glicemia (ipoglicemie), ridurre l'impatto di problemi come l'aumento di peso e del rischio di altre malattie, ottenendo nel contempo il miglior controllo possibile sul diabete. Per dirla in modo un po' retorico ma efficace, favorire uno stile di vita il più “normale†possibile.

Della medicina moderna la terapia insulinica è in un certo senso paradigmatica, perchè basata su un esercito di competenze da integrare in un progetto complesso. Accanto a problematiche di tipo più strettamente farmaceutico e tecnico, legate a caratteristiche delle molecole terapeutiche e dei dispositivi utilizzati, ve ne sono altre sul versante biologico, indotte da ciò che accade dopo la somministrazione nell'organismo. La conservazione e la stabilità della molecola insulinica, la precisione nella realizzazione tecnica dei vari dispositivi utilizzati (aghi, siringhe, penne, iniettori, monitor glicemici e device di controllo del rilascio insulinico) sono prerequisiti tecnologici di base.

Dopo la somministrazione, il deposito e l'interazione col microambiente locale, la dissociazione della forma attiva di insulina da questo primo sito corporeo e il rilascio più o meno rapido nella circolazione ematica, le caratteristiche molecolari del tipo di insulina come forma e cariche elettriche, unite ad aspetti relativi alla biologia del paziente, come distribuzione e funzionalità dei recettori dei tessuti bersaglio o loro attività metabolica, condizionano tutte assieme l'efficacia e la stabilità dell'effetto farmacologico.

La ricerca è attivamente impegnata a trovare soluzioni migliori per i vari aspetti: i dispositivi utilizzati devono ridurre la possibilità di errori da parte del paziente, aiutarlo nel calcolo delle dosi, apportare meno disagio possibile in fase di somministrazione, aumentando come conseguenza il suo grado di accettazione della terapia (compliance). L'insulina farmacologica deve riprodurre il più fedelmente possibile gli effetti di quella fisiologica, controllando la glicemia in modo costante e affidabile, evitando problemi come ipoglicemia e aumento di peso. La variabilità della glicemia, dato studiato in modo più approfondito negli ultimi anni con l'uso dei dispositivi di monitoraggio continuo, rappresenta un fattore di rischio indipendente per complicanze diabetiche. Evitare il più possibile le fluttuazioni glicemiche è quindi un obiettivo primario nella terapia.

L'evoluzione della scienza farmacologica in questo settore ha fatto la sua parte. Prima di dare uno sguardo d'insieme alle nuove preparazioni insuliniche cosiddette basali, consideriamo un attimo un altro problema: la differenza che c'è tra la fisiologia normale di azione dell'insulina prodotta dal pancreas e quella ottenuta dalla somministrazione come farmaco. Questo richiamo ci tornerà utile per comprendere alcune delle basi da cui si è mossa la ricerca scientifica.

Prima stazione, il fegato

L'insulina esogena salta il primo passaggio epatico
Normalmente, in risposta all'assunzione dei pasti, l'innalzamento dei livelli di glicemia e gli effetti di circuiti di segnalazione neuro-ormonale stimolano il rilascio di insulina dalle cellule beta delle isole endocrine del pancreas. L'insulina si dirige nel sistema della vena porta che afferisce al fegato. In uscita dal fegato, il sangue refluo tramite le vene sovraepatiche raggiunge la circolazione generale, ultimo tramite dell'insulina verso gli organi bersaglio. Una frazione che va dal 40% all'80% dell'insulina secreta dal pancreas nel sistema della vena porta viene utilizzata e rimossa dal fegato durante questo primo passaggio, prima di raggiungere la circolazione generale o sistemica. L'insulina circola quindi a livello sistemico in quantità ridotta rispetto a quella che raggiunge il fegato di prima mano tramite il sistema portale: di questo importante aspetto fisiologico si deve tener conto nella terapia insulinica, in cui il farmaco accede direttamente, tramite varie vie, alla circolazione sistemica, saltando quel primo passaggio epatico e non riproducendo quindi ciò che accade in vivo.

Un secondo aspetto è la difficoltà di emulare in modo preciso quel sistema complesso, affinato da milioni di anni di evoluzione, di circuiti di controllo del metabolismo glicemico, con una secrezione insulinica che risponde attimo per attimo alle richieste dell'organismo, come una bilancia continuamente aggiustata nel suo equilibrio. La misura di questo equilibrio è rappresentata da una glicemia mantenuta nei parametri normali, senza picchi eccessivi né pericolose cadute. Una somministrazione di insulina dall'esterno, per quanto oculata, non può riprodurre esattamente questa risposta continua e modulata, almeno per adesso. Dispositivi, metodologie o molecole nuove dotate di intelligenza operativa sono comunque già in uso o in avanzata sperimentazione, e potranno probabilmente farlo in modo preciso nel prossimo futuro.

Il gioco degli opposti

Sappiamo che la terapia insulinica tipica dello schema basal-bolus si avvale di molecole ad azione rapida, da utilizzare al momento dei pasti (i boli) in modo da evitare l'escursione glicemica post-prandiale e favorire le reazioni metaboliche correlate alla nutrizione, e molecole ad azione prolungata (il basale) che hanno il compito di mantenere una glicemia diurna, anche a digiuno, entro valori corretti.

Semplificando un po', possiamo dire che la ricerca degli ultimi anni si è spinta nella direzione di estremizzare le caratteristiche principali di questi due gruppi di insuline: maggiore velocità di azione e minor durata delle rapide, maggior durata e maggior stabilità di quelle ad azione prolungata. Ciò non è stato un capriccio dei ricercatori: gli studi clinici hanno infatti dimostrato che nuove molecole con queste prerogative producono notevoli vantaggi in termini di efficacia e sicurezza clinica.

Ci occupiamo qui delle insuline ad azione lenta, riservando alle insuline rapide un altro articolo di prossima pubblicazione. Tracciamo quindi in questa sede un riassuntivo elogio, ragionato e motivato, della lentezza. Ma anche della costanza, come vedremo.

Verso gli “analoghi†della fisiologia

L'insulina basale ideale: flessibilità degli orari e profilo flat
Sappiamo che la secrezione fisiologica di insulina da parte del pancreas prevede due modalità principali: un rilascio continuo e stabile, che definiamo “basaleâ€, dell'ormone immagazzinato nei granuli delle cellule beta, a cui si sovrappone un rilascio “esplosivoâ€, in forma di picchi di secrezione in corrispondenza dei pasti, una risposta che garantisce la massima concentrazione di insulina circolante dopo 45-60 minuti dall'ingestione di nutrienti, seguita da un ritorno alle condizioni basali entro 2-3 ore.

La necessità di riuscire a emulare in modo efficace questa secrezione basale di insulina ha stimolato i progressi ottenuti negli ultimi anni nella farmacologia. Le più moderne preparazioni insuliniche, ottenute con modifiche mirate della molecola dell'insulina umana, sono definite analoghi. Gli analoghi a lento assorbimento ed azione protratta vengono denominate insuline basali: ad esse viene affidato il compito di mimare la costante secrezione insulinica del pancreas.

Un'ideale insulina basale deve rispondere a due stringenti esigenze: in primo luogo, mantenere una concentrazione costante nell'arco delle 24 ore, evitando picchi, con una parallela azione farmacologica secondo un profilo il più “piatto†possibile; in secondo luogo, consentire una somministrazione flessibile, garantendo una copertura ottimale delle 24 ore anche dopo variazioni dell'orario di assunzione. Le insuline commercializzate negli ultimi anni si sono progressivamente avvicinate a questi obiettivi. Ma perché questi sono così importanti?

Costruzioni molecolari

Nonostante gli sforzi della scienza diabetologica e gli strumenti messi a disposizione di medici e pazienti, ancor oggi in un'importante percentuale di casi non si arriva a un ottimale controllo del diabete. La paura di “eccedere†con l'insulina e trovarsi in ipoglicemia - ancor più se notturna e ancor più se si è anziani e in solitudine - la tendenza all'aumento di peso, la difficoltà ad adeguarsi in modo “militare†al regime di iniezioni, sono tutti fattori che concorrono a questo parziale insuccesso.

Modifiche strutturali modificano i tempi di assorbimento dell'insulina
Normalmente, l'insulina umana solubile aggrega in esameri (gruppi di 6 molecole) che poi dissociano in dimeri o monomeri, che sono quelli che entrano con più facilità nel sistema circolatorio. Il comportamento biologico della molecola di insulina è stato modificato secondo due strategie: utilizzando elementi chimici addizionali in grado di ritardare il rilascio delle molecole attive o cambiando la struttura della stessa proteina tramite modifiche nella sua sequenza di aminoacidi o unione con di gruppi chimici, in entrambi i casi favorendo la formazione di aggregati a lenta dissociazione. Tutto ciò produce un'insulina diversa da quella originale per ciò che riguarda la stabilità, l'assorbimento in circolo e in ultimo anche il legame con i recettori, ma preserva l'azione ormonale.

Prolungare la durata d'azione dell'ormone è un obiettivo di vecchia data. Più di 60 anni fa, l'insulina NPH è stata ottenuta aggiungendo zinco e protamina alla molecola, rallentandone di conseguenza il rilascio dal tessuto sottocutaneo e ottenendo un'insulina “intermedia†(12-16 ore di azione). La presenza di un picco di azione a 6 ore e la variabilità dell'assorbimento si associano però al rischio di ipoglicemia, prevalentemente notturna. L'insulina NPH è stato un passo importante della ricerca, ma è stato necessario andare oltre quel risultato. L'arrivo di molecole modificate nella struttura, gli analoghi lenti, ha messo in luce una serie di vantaggi.

Glargina e gloria

L'insulina glargina (LANTUS) è costituita da una molecola di insulina umana in cui sono stati aggiunti due residui di arginina in posizione B30 ed è stato sostituito l'acido aspartico in posizione A21 con la glicina. Ciò modifica il punto isoelettrico della molecola, rendendola solubile in ambiente acido. Iniettata sottocute, forma microparticelle che vengono assorbite lentamente, ottenendo un'azione prolungata (18-24 ore) e virtualmente senza picchi d'azione, con qualche eccezione alle dosi più elevate.

L'efficacia della glargina è risultata comparabile all'NPH, col vantaggio di un rischio di ipoglicemia notevolmente inferiore. Questa bilancia che contrappone il controllo dell'iperglicemia da un lato e il problema dell'ipoglicemia dall'altro è lo strumento concettuale principale degli studi clinici che valutano le nuove preparazioni insuliniche. I gloriosi 15 anni dell'insulina glargina, come analogo a lunga durata d'azione di prima generazione, l'hanno eletta a termine di paragone per le nuove molecole sviluppate dalla ricerca. Solo quando i test hanno dimostrato una non inferiorità o, ancor meglio, aspetti vantaggiosi rispetto alla glargina, le nuove insuline sono potute entrare a buon diritto nella pratica clinica.

Detemir viaggia in albumina

L'insulina detemir (LEVEMIR) è stata la prima vera concorrente ad entrare in gioco. Si tratta di un analogo insulinico in cui è stata “montata†la catena di atomi di carbonio di un acido grasso in posizione B29 (acilazione). La modifica è una specie di “gancio†molecolare che consente alla detemir di legarsi all'albumina nel tessuto sottocutaneo e nella circolazione sanguigna: l'azione farmacologica ne risulta prolungata (16-18 ore), in misura minore rispetto alla glargina, verso la quale ha dimostrato un'efficacia paragonabile nel controllo glicemico.

Rispetto all'insulina NPH anch'essa si accompagna a un rischio minore di ipoglicemie, una maggior costanza dell'azione e un minore incremento di peso nei pazienti. La durata d'azione minore rispetto alla glargina può richiedere in un certo numero di pazienti una doppia somministrazione giornaliera. Il minor impatto sul peso corporeo ha una possibile spiegazione: il legame con l'albumina determina una miglior captazione e una facilitata azione a livello epatico rispetto al tessuto muscolare e adiposo.

Degludec, la vera stabilità

Superare la barriera delle 24 ore consente una concentrazione stabile di insulina
Il cammino verso un'insulina basale con proprietà ottimali ha raggiunto un'altra tappa importante, se non fondamentale: l'entrata in scena dell'insulina degludec (TRESIBA), il primo analogo lento che potremmo definire di seconda generazione. La necessità di ottenere uno stato stazionario (steady state) nella concentrazione di insulina, in cui l'insulina somministrata è uguale a quella eliminata, richiedeva espressamente di realizzare una molecola con durata d'azione superiore alle 24 ore. I buoni risultati ottenuti con le insuline finora in uso non avevano comunque consentito di soddisfare pienamente l'esigenza di un'ottimale basalizzazione.

L'insulina degludec, realizzata tramite una modificazione della molecola originaria ottenuta agganciando un piccolo scheletro di atomi di carbonio all'aminoacido lisina in posizione 29 della catena B (fig. 2), si avvicina a questa esigenza di durata e stabilità dell'effetto farmacologico. La formazione di esameri multipli e il rallentamento della dissociazione nella forma attiva ne determinano la prolungata azione, con un'emivita di 25 ore e il raggiungimento di uno stato stazionario della concentrazione in 3 giorni.

Di nota è che con la monosomministrazione nelle 24 ore si ottiene un effetto ipoglicemizzante distribuito in modo uniforme tra le prime e le seconde 12 ore. Questo profilo farmacocinetico e farmacodinamico “ultrapiatto†della degludec è risultato associato a importanti vantaggi clinici, come documentato in trial su vasta scala su pazienti con diabete di tipo 1 e 2, gli studi BEGIN. Metanalisi hanno dimostrato che nei soggetti con diabete tipo 1 vi era una notevole riduzione del rischio di ipoglicemie notturne rispetto all'insulina glargina, mentre nel diabete tipo 2 risultavano ridotte sia l'ipoglicemia notturna che le ipoglicemie confermate. L'efficacia terapeutica risultava inoltre paragonabile a quella della glargina in entrambe le forme di diabete.

E c'è un altro importante aspetto ad aggiungere punti in classifica: le proprietà farmacologiche dell'insulina degludec consentono di somministrarla secondo uno schema flessibile. L'impossibilità o la non volontà di effettuare l'iniezione insulinica in certi momenti, fatto che si verifica abbastanza di frequente nei pazienti, non compromette la terapia quando si possa rimediare in un secondo tempo, di maggior comodità secondo i personali parametri di chi deve effettuarsi l'iniezione.

A tale scopo, la flessibilità di degludec è stata provata sul campo, in pazienti con diabete di tipo 1 arruolati in uno studio in cui si confrontava la monosomministrazione di insulina glargina con la monosomministrazione serale di degludec e con la somministrazione della stessa degludec secondo uno schema flessibile (definito degludec Flex), in cui l'iniezione al mattino si alternava con quella serale creando intervalli variabili di 8 e 40 ore tra una somministrazione e la successiva. I risultati hanno incontrato le speranze: mantenendo in questo studio un'efficacia paragonabile allo schema classico, in termini di controllo della glicemia e di ipoglicemia notturna, lo schema degludec Flex è andato anche oltre in un altro studio su soggetti con diabete di tipo 1, in cui oltre alla non inferiore efficacia in termini di controllo del diabete è risultato anche associato a un minor numero di episodi ipoglicemici notturni.

Questi dati confermano il profilo d'azione stabile, privo di picchi e prolungato dell'insulina degludec, che ne consente una somministrazione flessibile, addirittura in un'alternanza mattino-sera che rappresenta la massima forzatura dell'orario, senza compromettere il controllo glicemico o incorrere in misura maggiore in episodi ipoglicemici.



Fig. 2 – Struttura dell'insulina Degludec - Costruzioni molecolari: modifiche mirate dell'insulina ne cambiano le proprietà, come la velocità di assorbimento dal tessuto sottocutaneo sede di inezione. Nell'immagine, la struttura dell'insulina degludec (Protein Data Bank). Sopra la rappresentazione delle subunità della proteina, è visibile la piccola catenella di acido grasso, modifica che rallenta l'entrata in circolo dell'insulina attiva, prolungandone l'attività.

PEG-Lispro preferisce il fegato

La somministrazione sottocutanea rilascia l'insulina nella circolazione sistemica, con l'effetto di esporre il fegato e i tessuti periferici alla stessa concentrazione di ormone. Ciò rappresenta un livellamento che non riproduce la fisiologia insulinica normale, che come abbiamo detto prevede un'esposizione del fegato a livelli di ormone da 2 a 4 volte più elevati, provenienti dalla secrezione pancreatica tramite la vena porta. Questo “bolo epatico†di secrezione insulinica endogena, seguito dal metabolismo di una grossa quota dell'insulina da parte del fegato, è diverso dalla distribuzione innaturale che si ottiene con le iniezioni sottocutanee, che determinano una sovra-insulinizzazione periferica con effetti non desiderati.

Ma la ricerca se n'è occupata, sviluppando di un nuovo tipo di analogo, anch'esso da annoverare tra quelli di seconda generazione: la PEG-lispro, ovvero l'insulina lispro pegilata, termine bruttino per indicare che alla molecola insulinica viene agganciato il glicole polietilenico, una specie di voluminoso ombrello che cattura molecole di acqua e aumenta il volume idrodinamico dell'intera struttura, rallentandone in modo deciso l'assorbimento e poi l'eliminazione. Si ottiene una durata d'azione superiore alle 36 ore, sempre in linea con le necessità di ottenere un effetto di basalizzazione insulinica e consentire una flessibilità dell'orario di somministrazione.

PEG-lispro mostra un'azione preferenziale sul fegato probabilmente perché quest'organo è dotato di un sistema di capillari (i sinusoidi epatici) fenestrati da grandi aperture che facilitano l'ingresso di questa insulina nelle cellule epatiche; tali vie di passaggio facilitato non sono presenti nei capillari degli altri organi bersaglio come il tessuto muscolare e adiposo.

Meno ipoglicemie e peso corporeo stabile con l'insulina PEG-lispro
I test effettuati nei pazienti hanno dato risultati molto promettenti: in soggetti con diabete tipo 1, il testa a testa di PEG-lispro con glargina ha mostrato con la prima un miglior controllo glicemico (glicemia a digiuno e HBA1c), una minor variabilità glicemica e una ridotta tendenza all'aumento di peso corporeo. Secondo i dati, c'è stata addirittura una riduzione del peso corporeo (1,2 kg in media, rispetto all'aumento di 0,7 kg registrato con l'insulina glargina): ma tenendo presente che i pazienti erano stati già trattati con insulina in precedenza, è possibile che la sovrainsulinizzazione precedente abbia determinato l'eccesso di peso, smaltito poi con la terapia PEG-lispro. In soggetti in cui venga utilizzata in prima linea la PEG-lispro è possibile che non si registri tale perdita di peso, tuttavia il dato è sicuramente incoraggiante perchè anche un’eventuale stazionarietà del peso corporeo sarebbe comunque un grosso risultato.

In pazienti con diabete tipo 2, trattati con ipoglicemizzanti orali e insulina basale, il raffronto con glargina ha confermato risultati incoraggianti: controllo glicemico simile nei due gruppi, ridotta variabilità interglicemica, ipoglicemia notturna molto minore in frequenza (-48%). Anche qui è stata registrata una promettente perdita di peso.

Un problema possibile, in un certo senso prevedibile vista l'azione preferenziale a livello epatico di questo tipo di insulina, è l'attivazione del meccanismo di stoccaggio di grassi a livello epatico, con conseguente tendenza alla steatosi e a uno shift non voluto del metabolismo lipidico, con alterazioni dei principali parametri del colesterolo e dei trigliceridi.
In altre parole, ciò che risulta utile da un lato, cioè l'alleggerimento dell'insulinizzazione periferica, con minore o azzerata tendenza all'aumento di peso e riduzione di accumulo di grasso in periferia o nel tessuto cardiaco, potrebbe essere gravato dallo svantaggio di un carico eccessivo di “azione insulinica†a livello del fegato. Quest’aumento dell’effetto epatico a discapito di quello periferico simula più da vicino le condizioni fisiologiche ma potrebbe anche essere motivo di preoccupazione, una considerazione confermata anche dallo slittamento dei tempi di autorizzazione a parte degli enti preposti al controllo dei farmaci. In effetti, gli studi hanno registrato un aumento degli enzimi epatici (AST e ALT) e dei trigliceridi, lieve aumento del colesterolo LDL e lieve diminuzione di HDL. Incoraggiante tuttavia è il fatto che in 6000 pazienti con diabete tipo 1 o 2 trattati per 18 mesi, non si sono registrati casi di danno epatico (aumento di 3 volte di AST e ALT e 2 volte di bilirubina totale), facendo ipotizzare che i cambiamenti nei parametri epatici possano essere attribuibili a un adattamento epatico all'azione insulinica più diretta esercitata da PEG-lispro.

Rivoluzioni annunciate

La ricerca sembra aver risposto in modo adeguato alla necessità di un insulina basale che si avvicinasse al modello ideale, e in tal senso la competizione tra le grandi aziende farmaceutiche può essere un bene aggiunto. Attualmente vari rumors annunciano l'imminente l'entrata in scena di un nuovo tipo di insulina (Ins-PBA-F), creata dai ricercatori del Children’s Hospital di Boston del MIT (Massachusetts Institute of Technology), già definita “smartâ€, in grado di seguire il profilo glicemico tramite un interruttore molecolare, interno alla sua struttura, sensibile al livello ematico di glucosio, e funzionare essa stessa come pancreas artificiale, superando con un sol colpo dispositivi e tecnologie già in commercio. Ma prima attendiamo corposi lavori scientifici che, come sempre, dimostrino sul campo la “non inferiorità†del nuovo rispetto a quanto già ben collaudato. In questo caso, bisogna aggiungere, se la metodica è efficace quanto lo sono i suoi presupposti, la non inferiorità si trasformerebbe in una rivoluzione stupefacente della terapia del diabete. Ce ne occuperemo a breve.

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